APPROCCIO UMANISTICO ESISTENZIALE

APPROCCIO UMANISTICO ESISTENZIALE

Il modello Umanistico Esistenziale (UE) è basato su un approccio alla sofferenza centrato sulla persona malata piuttosto che sulla malattia; quindi oltre al consueto processo diagnostico terapeutico medico esso valorizza il rapporto con il paziente anche per gli aspetti soggettivi, di valori e interazioni, offrendo una prospettiva a largo e profondo spettro. Esso punta dunque a considerare nel processo di cura e insieme all’attenzione clinica, anche aspetti profondi della persona in quanto essere individuo unico e irripetibile.

Questo modello permette di guardare anche agli aspetti spirituali, non solo come aspetto religioso della persona, ma come ad una risorsa da poter attivare in situazioni critiche.

Viene tenuto in massima considerazione il progetto di vita valorizzandone la storia passata e prestando attenzione al rapporto personale con i sanitari curanti e con la rete psicosociale di sostegno della persona. Inoltre, nel valutare il processo di malattia e gli interventi, considera il ciclo di esistenza della persona (ove sia intervenuta la frattura della malattia) e la possibile angoscia per la malattia e la morte, sostenendone l’espressione e fornendo gli strumenti utili per ricostruire il senso della propria esistenza.

In questo modo si offre al paziente la possibilità di una risposta proattiva alla sofferenza e di salvaguardia del valore e della dignità personale, spesso colpite dal processo di malattie gravi e invalidanti, sia psichiche che somatiche.

Il modello UE privilegia l’interazione con il malato tenendo conto del mondo dei significati, credenze e valori propri della persona stessa nelle scelte e nei processi terapeutici e nel percorso di malattia. Presupposto di questo approccio è che qualsiasi modello di intervento per contrastare la sofferenza e migliorare la qualità della vita debba considerare la globalità dei bisogni del paziente, fisici e mentali (Biondi, Costantini, Grassi, 1998) nonché i contesti in cui queste necessità si manifestano. Quest’approccio si applica non solo al malato psichiatrico ma, più in generale, a tutti i pazienti sofferenti di patologie organiche in medicina e chirurgia e consente un approccio globale in molte condizioni, privilegiando l’umanizzazione delle cure e l’empowerment, in linea con i più recenti sviluppi del Codice Deontologico che pone la persona al centro del processo di cura. In campo psichiatrico e psicologico clinico esso non esclude l’approccio – tipico di altri modelli psichiatrici e psicologici – centrato solo sulla visione di dinamiche intrapsichiche, oppure di sola rete relazionale o familiare, oppure ancora di interpretazione biologica della malattia, ma li integra nella visione UE.

Sono numerose le influenze che caratterizzano gli interventi secondo il modello UE e che vanno da un tipo di intervento sul paziente di carattere esistenziale (inquadrando i fenomeni e le sofferenze riportate in terapia come una fenomenologia da approfondire, elaborare e superare) fino ad interventi di carattere psico-corporeo volti ad integrare la dimensione corporea intesa come riflesso e manifestazione – diretta o indiretta – di una sofferenza psichica. Per questa ragione esso sta avendo crescente accoglienza da parte di persone sofferenti non solo di disturbi psichiatrici, ma in particolare con malati somatici nei contesti ambulatoriali ed ospedalieri, specialmente con pazienti oncologici in cura palliativa, geriatrici e ospedalizzati in generale. In tutti questi casi il modello UE proprio per il fatto di comprendere oltre le necessità del paziente anche la condizione manifestata in relazione a quello specifico e particolare contesto, è risultato molto utile ed è divenuto centro di un progressivo e crescente interesse.  Nei casi di pazienti ospedalizzati, i bisogni fisiologici, emotivi – psicologici, sociali, esistenziali – spirituali e d’informazione relativamente alla propria condizione, sono affrontati approfonditamente: anzi sono il focus dell’intervento proposto da questa visione.

1. LE RADICI STORICHE

“Riscoprivo che bisognava conservare in sé intatte una freschezza, una sorgente di gioia, amare la luce che si sottrae all’ingiustizia, e con questa luce conquistata tornare a lottare (…) Imparavo finalmente, nel cuore dell’inverno, che c’era in me un’invincibile estate.” – Albert Camus ‘Retour à Tipasa’ – 1953

Il modello Umanistico – Esistenziale ha le sue radici teoriche ed epistemologiche nella Fenomenologia e nell’Esistenzialismo del ‘900. Autori significativi del movimento della psicologia umanistico-esistenziale americana ed europea sono stati in particolare (considerando il pensiero filosofico di  Soren Kierkegaard come inizio storico dell’Esistenzialismo) Carl RogersOtto RankViktor FranklLudwig BiswangerMedard BossKarl Jaspers, Rollo May, Eugene Minkowski, fino a Irwin Yalom.  In Italia riconosce nella figura di Luigi De Marchi il suo masggiore esponente perché fu lui a rivendicarne in Italia l’eredità, e da Viktor Frankl soprattutto, una concezione dell’uomo e della vita che rivendica per l’essere umano la possibilità, sia nelle condizioni normali ma anche nelle situazioni più difficili, del diritto e della capacità di scelta. Per molti anni preferì lavorare nell’ambito di indirizzi già affermati, valorizzando il pensiero di Wilhelm Reich, di Carl Rogers e Otto Rank (De Marchi, 1992) per poi negli anni ’80 sviluppare un approccio originale alla sofferenza psichica umana e alla ricerca delle sue origini più profonde e nascoste. Suggerì che il nucleo centrale della sofferenza psichica umana – che si accende nei vissuti di paura, nel senso di mancanza di difese e di solitudine, nei disturbi mentali e nelle malattie somatiche – risieda nel sentimento di angoscia provocato dalla consapevolezza della morte insieme alla volontà ferrea anche se non sempre consapevole di rimuovere questo pensiero (De Marchi, 1983). L’approccio esistenziale verte intorno al riconoscimento di questa tematica, ma si apre anche a una risposta umana sviluppando un atteggiamento di compassione e solidarietà tra persone. Il rapporto tra terapeuta e paziente – oltre alle consuete proprietà tecniche e professionali dell’operare e del relazionarsi – si arricchisce pertanto di questa più rilevante dimensione, integrando gli aspetti della psiche con quelli corporei ed esistenziali.

Pertanto, il termine “umanistico” è inteso nel senso dell’umanizzazione delle cure e rimanda al rapporto della relazione attuale con la persona malata, mentre il termine “esistenziale” applicato al rapporto terapeutico sottolinea la priorità del progetto di sé nella traiettoria dell’esistenza. Questo metodo permette meglio di altri di cogliere il valore personale e irripetibile della storia della singola persona, e di scoprire che cosa abbia dato “senso” alla propria vita e come essa possa andare verso il futuro.

Dal punto di vista operativo clinico, si è andato sviluppando negli anni più recenti un modello ulteriore di intervento clinico, articolato e organizzato secondo quattro livelli e procedure, denominate “dimensioni” (Filastro, 2015).

2. LE QUATTRO DIMENSIONI DEL MODELLO UMANISTICO ESISTENZIALE

Il modello si caratterizza per una visione comprensiva e completa del paziente e della patologia, attraverso tecniche d’intervento in parte originali, in parte mutuate da altri ambiti e adattate al nuovo approccio. Lo spirito che anima il modello è pluralista e non dogmatico, attento alla sofferenza umana. Nell’intervento terapeutico si riconoscono le contaminazioni di altri modelli teorici e pratiche cliniche, basate sull’approccio all’essere umano sotto l’aspetto verbale, affettivo-relazionale, corporeo ed esistenziale. Compito del terapeuta sarà fondere le moderne scoperte tecniche in ambito psicologico e neuropsicologico con la dimensione esistenziale di ogni soggetto, che potremmo definire atemporale. L’intervento clinico si concentra su quattro dimensioni fondamentali dell’esperienza umana:

1)    La dimensione relazionale – affettiva

2)    La dimensione corporea

3)    La dimensione cognitivo- esistenziale

4)    La dimensione esistenziale

Proviamo a specificare il significato di queste quattro dimensioni che caratterizzano e rendono unico il modello UE.

2.1 La dimensione relazionale – affettiva.

Ogni evento della vita si presenta nella sfera psichica con un significato specifico, sia che lo si classifichi come fondamentale sia che gli si attribuisca una scarsa importanza. La capacità umana di attribuire un significato agli eventi è un processo complesso mediato dai connotati emotivi che caratterizzano l’evento stesso o che sono la conseguenza del modo in cui è stato affrontato l’evento. Questa variabile emotiva associata al significato, si caratterizza per una certa intensità e pervasività (Filastro, 2015).  Al fine di stabilire un’efficace relazione terapeutica col paziente, è bene ricordare come per ogni evento specifico occorra una dose specifica di empatia. Quello che nel modello viene definito come “rapporto relazionale di empatia di esistenza” si riferisce alla capacità del clinico di ricreare un clima di accettazione empatica incondizionata, tale per cui si possa esplorare insieme al paziente la profondità (intensità e pervasività) dei significati degli eventi riportati nel setting terapeutico. Ricordiamo che uno degli assunti cardine della teoria umanistico-esistenziale risiede nella negazione della propria angoscia di morte, per cui affrontare una tematica simile in terapia richiede da parte del soggetto (oltre che del terapeuta stesso) un’importante mobilitazione di energie cognitive ed emotive. Questo tipo di questione, per la sua delicatezza, ha bisogno di un ambiente il più sicuro possibile in cui sia possibile esprimere le forti emozioni esistenziali di cui si colora. Ma il difficile tema dell’angoscia di morte metterà spesso il soggetto alle corde ponendolo dinanzi al muro delle sue personali difese e anche di fronte alle nuove opportunità con cui sarà in grado di attribuire nuovi e più ampi significati con cui affrontare le difficoltà e le problematiche quotidiane, elaborando così gradualmente una visione e un progetto di sé colti attraverso una nuova prospettiva sugli obiettivi di vita.

Per raggiungere questo obiettivo non è sufficiente aver affinato l’aspetto verbale della relazione con il paziente, ma anche una allenata e attenta presenza sul piano propriocettivo e corporeo; una efficace comunicazione non verbale contribuirà significativamente alla costruzione di un clima di empatia esistenziale, in cui il soggetto si sentirà maggiormente incline ad esprimersi.

La dimensione relazionale-affettiva nel setting terapeutico è di particolare importanza poiché fa da base al lavoro sulle altre dimensioni e soprattutto permette poi al paziente la scelta, la risposta proattiva, di espressione e di creazione di significato.

2.2 La dimensione corporea

Come si è accennato, nel lavoro di De Marchi fu fondamentale il ruolo di Wilhelm Reich, psicoanalista discepolo di Freud, dal quale poi si differenziò per la sua attenzione alla dimensione corporea, promuovendo nella prima metà del Novecento la “Bioenergetica” come chiave di lettura del corpo e d’intervento per disturbi mentali (De Marchi, 1970; De Marchi, 1981; De Marchi, 2007).

A Reich (1920) si deve l’introduzione di un nuovo modo di fare analisi che comprende l’utilizzo di esercizi di respirazione e l’analisi delle posture, del corpo e dei suoi atteggiamenti. Obiettivo della terapia era per Reich il ripristino della normale funzione orgasmica, cioè la capacità dell’organismo di scaricare energia in eccesso accumulata a livello fisico. Per fare questo, Reich lavorava molto sulla respirazione portando il paziente a superare le difese che impedivano il libero fluire dell’energia nel corpo secondo una concezione energetica ripresa poi da Alexander Lowen, suo allievo, e nota al mondo orientale fin dall’antichità (Reich, 2000). Si deve a Reich l’approfondimento dei significati psicologici associati alle contratture muscolari (da Reich chiamati blocchi o corazze) che impediscono il movimento dell’energia nel corpo e che sono alla base di quella che egli chiamò “struttura caratteriale”. Con questo termine Reich intendeva il complesso sistema di blocchi psico-corporei (intesi come difese psichico-emotive che si manifestano a livello corporeo) che si strutturano nell’individuo determinandone l’aspetto, la postura, la percezione, i comportamenti e il modo di affrontare la vita stessa.

L’analisi del carattere è una parte fondamentale del lavoro terapeutico per aiutare il paziente a comprendere le relazioni tra le sue difese psichiche e le rispettive manifestazioni somatiche (Reich, 1973). L’indagine psico-corporea in Reich si caratterizza nell’analisi di tre domini e nella suddivisone tra le componenti fisica, emozionale e cognitiva che rimanda alla tripartizione del cervello in rettiliano, limbico e corticale, elaborata da MacLean (1985). A ciò si aggiunge il Sé, inteso come il centro del sistema, definito anche da Reich “nucleo energetico”, ossia una particolare dimensione della coscienza, che unifica e trascende i vari livelli e ne gestisce le interazioni. Ogni esperienza personale si struttura su questi livelli simultaneamente, esprimendo aspetti differenti ma non separati di consapevolezza della stessa esperienza. Per questo occorre elaborare il vissuto relativo a tutti questi livelli d’analisi, per riuscire a realizzare una vera integrazione e a sciogliere i blocchi, espressione di quel vissuto, che sono allo stesso tempo fisici, emotivi e cognitivi (Cinotti, Zaccagnini, 2010).

Reich è stato il primo a costruire un modello di psicoterapia in cui il corpo entra nel setting analitico, dove l’uomo viene visto nella sua totalità individuale, ovvero come unità funzionale mente-corpo.

Anche in Georg Walter Groddeck (1866- 1934), medico e fisioterapista, arrivato alla psicoanalisi per vie traverse e che aveva formulato delle ipotesi sull’Es che entusiasmarono lo stesso Freud, il quale riconobbe che l’inconscio non parla soltanto in sogno ma si esprime anche sul piano corporeo. Ogni sintomo è un simbolo, è il messaggio di un malessere più profondo che dovrebbe essere tradotto e portato alla coscienza (Groddeck, 2005).  Le manifestazioni psico-fisiologiche, mediate per Groddeck dall’Es, hanno un linguaggio simbolico antico, universale che esprime sia la lesione cutanea, il cancro, ma anche la patologia nevrotica (Groddeck, 1981).

È proprio da questi autori che l’approccio corporeo nel modello UE prende forma, proprio per evitare un limite diffuso in psicoterapia, secondo cui il corpo ha rischiato di essere lasciato “fuori dalla porta”, troppo spesso e il pregio di quest’approccio è stato di richiamarne la presenza e il ruolo nella prospettiva terapeutica comprensiva (…) questi indirizzi, umanistico, esistenziale, corporeo hanno avuto, curiosamente, una ridotta quantità di studi con disegno sperimentale controllato, randomizzati, e ancor meno multicentrici, a differenza di altri indirizzi, primi tra tutti quello cognitivo – comportamentale. Questo è dovuto a diversi motivi. Come la psicoanalisi, e l’approccio relazionale-familiare, questi tre indirizzi sopra riportati non hanno basato il loro approccio sul concetto di “mi- sura”, di intervento sintomi obiettivabili, ma su variabili più̀ indeterminabili e sfuggenti, ma non per questo di minor significato. Si potrebbe aggiungere anche che i clinici di tali indirizzi per mentalità̀ non sono inclini all’approccio delle scienze esatte, a torto o a ragione e questo ha rappresentato un handicap per la dimostrazione di efficacia terapeutica, di là da resoconti su singoli casi e piccole casistiche, per quanto approfondite. Tutto questo significa che esse sono inefficaci e non utili? È difficilmente so- stenibile. Ne sono risultate comunque certamente svantaggiate in termini di evidenza di efficacia, concetto cui di recente si dà marcata importanza. La mancanza di evidenza di efficacia non è evidenza di mancanza di efficacia: al di là dell’apparente gioco di parole, si intende che un trattamento può̀ essere efficace anche se non è stato sottoposto a prove sperimentali di evidenza, quando l’esperienza clinica e osservazioni in setting naturalistici ne suggeriscono documentazione.” (Biondi, 2016).

Sebbene l’approccio bioenergetico e delle terapie psicocorporee non abbiano dunque forti evidenze di efficacia da studi controllati quantitativi, come del resto altre metodiche psicoterapiche (in parte per le radici lontane di epoche in cui questa metodologia di verifica non era diffusa, in parte per uno spirito più creativo e meno “scientifico” dei suoi autori) è indubbio che numerosi interventi psicoterapici degli ultimi due decenni in diversi ambiti su malati somatici con varie patologie (neoplastiche, cardiovascolari, gastrointestinali, ed altre) siano spesso attuati proprio mediante azioni sul corpo. “Programmi” questi che coinvolgono il corpo in vari modi, con tecniche di respirazione, movimento fisico, attività aerobica, massaggio bioenergetico, biofeedback, tecniche di rilassamento attivo, respirazione guidata mindfulness, psicodramma, facilitando l’espressione e l’autoregolazione emozionale – veri e propri interventi psicocorporei – spesso condotti in formato di gruppo, con sedute in numero predefinito, a tempo limitato.

Nell’ambito invece di psicoterapia individuale questi interventi possono essere anche introdotti per facilitare una maggiore capacità di contatto con sé e gli altri, il recupero di ricordi ed emozioni del passato. Le tecniche psicocorporee insegnano a sentire il corpo, a recuperare l’esperienza connettendola al vissuto psichico, e a controllarlo, favorendo l’autoregolazione emozionale. Questi tipi di intervento sul corpo permettono di approcciarsi alla patologia presentata dal paziente su un livello differente rispetto a quello abituale fondato solo sulla parola e l’empatia. L’esperienza clinica suggerisce che questo tipo di approccio, che include in modo rilevante il corpo nel trattamento psicoterapico, può essere di utilità significativa in particolare con pazienti con disturbi mentali a manifestazione somatica (cosiddetti Disturbi Somatoformi): pazienti con somatizzazioni d’ansia; pazienti con difficoltà di espressività verbale; pazienti con ridotta capacità di mentalizzazione; fino a pazienti con alcuni quadri psicotici stabilizzati; per interventi in ambito riabilitativo, tutti settori dove tecniche psicoterapiche tradizionali possono trovarsi in seria difficoltà.  Un altro settore è quello di pazienti con malattie somatiche e concomitante sofferenza psichica, ma a scarsa disponibilità a interventi di “terapia con le parole”. In questo senso l’approccio UE non si contrappone ad altre tecniche d’intervento psicoterapico o psicofarmacologico ma amplia le possibilità di risorse terapeutiche a disposizione (Biondi, Valentini, 2014).

2.3 La dimensione Esistenziale.

L’uomo è per la visione esistenzialista in eterno divenire ed in eterna ricerca di nuovi equilibri e significati che mai saranno definitivi, per il mutare di eventi ma soprattutto per il mutare di sé, delle sue motivazioni, esigenze ed aspettative. Il modello UE consente non solo al terapeuta di affrontare tematiche esistenziali come il senso della vita, la morte, la sofferenza, la scelta ma anche quelli inerenti ai processi di crescita sviluppo ed affermazione di sé innescando i processi di ampliamento ed espressione delle proprie risorse creative.

È fondamentale favorire l’abilità mentale di costruire una visione serena di contesto sia della rete relazionale della persona che soprattutto temporale, di esistenza. Favorire l’acquisire una visione per così dire di longitudine esistenziale entro cui “ricollocare” e attribuirgli una giusta collocazione. Il tema prevalente attuale. Molte cose, problemi e difficoltà che impegnano pensieri ed emozioni vedono il loro significato trasformato e ridistribuito, vengono come ricollocate in uno spazio mentale nuovo creato appositamente da questi scambi con il terapeuta, che svolge un’attiva funzione di guida. Il lavoro psicoterapico in questa prospettiva UE si avvale positivamente e costruttivamente del senso del tempo: permette di inscrivere la propria vita nell’arco della propria esistenza e di “vederla” come fosse un panorama.” (Biondi, 2016).

È importante il procedere per cicli, ovvero vedere la propria vita in una cornice diversa acquisendo appunto una visione “longitudinale esistenziale”, rilanciando nuovi traguardi nel “qui ed ora” che diano un senso alla propria esistenza e che aprano ad una visione progettuale e creativa verso la vita. All’angoscia devastante che scaturisce dal confronto con la “questione morte”, il terapeuta cerca di intercettare, riconoscere e promuovere le motivazioni esistenziali del paziente, accanto alle risorse e potenzialità generando un senso di autoefficacia ed empowerment sulla propria vita. Con il termine “empatia esistenziale” si fa riferimento alla disposizione d’animo del terapeuta come colui che prende ascolto all’esperienza soggettiva che il paziente racconta e nel contempo vi partecipa con atteggiamento non giudicante, non tentando di spiegarla ma vivendola insieme. Questo permette di aiutare la persona anche in condizioni di fine vita e quindi, di andare oltre le tematiche che solitamente vengono affrontate in psicoterapia, partendo dal presupposto che terapeuta e paziente pur trovandosi in situazioni di vita differenti, appartengono alla stessa condizione umana.

2.4 La dimensione cognitivo - esistenziale.

Questa dimensione proposta dal modello riafferma il concetto di multidisciplinarietà già precedentemente descritto. La preparazione “esistenziale” del terapeuta deve essere accompagnata e incrementata dalle nuove conoscenze che emergono di giorno in giorno nel campo della ricerca sperimentale moderna. Propone una ristrutturazione ed una integrazione in senso funzionale dei processi cognitivi all’interno delle modulazioni affettive del paziente, al fine di recuperare un senso di significatività della propria esistenza ed uno spostamento da un focus nevrotico alle proprie potenzialità. Questa dimensione consente di indagare un nuovo modo di essere funzionale alla realtà e nel progetto di sé e della propria identità e di acquisire uno stile di pensiero utile laddove risulti inefficace l’esplorazione profonda del proprio passato e delle angosce più nascoste. Per far questo, il modello Umanistico – esistenziale si avvale del supporto di pratiche terapeutiche la cui efficacia è stata comprovata scientificamente, come ad esempio la RET (Ellis, 1989) o la ACT (Hayes, 1986; Hayes & Wilson, 1994) a seconda del tipo di soggetto che il terapeuta si trova davanti. La RET (Rational Emotive Therapy) in seguito denominata REBT (Rational Emotive Behavior Therapy) è stata elaborata dallo psicologo Albert Ellis (1913 – 2007) negli anni cinquanta:  è una tecnica psicoterapica di tipo attivo e di impostazione cognitivo-comportamentale, che attribuisce importanza focale al fatto che frequentemente gli individui strutturano inconsapevolmente i propri disturbi emotivi, e come conseguenza di ciò, sono essi stessi a possedere la fondamentale capacità di modificarli e di scegliere una vita emotiva più soddisfacente. La ACT (Accepatance and Commitment Therapy) “Terapia di accettazione e di impegno nell’azione” è una forma di psicoterapia di recente diffusione che fa parte delle psicoterapie cognitivo-comportamentali mindfulness-based, più note come approcci della “terza onda” o “terza generazione” della psicologia. L’acronimo “ACT” richiama il verbo inglese to act (agire), è stata sviluppata da Steve Hayes e i suoi collaboratori nel 1986 e illustrata in due articoli scientifici (Hayes & Brownstein, 1986; Hayes & Wilson, 1994) e poi, nel 1999, in un libro dal titolo “Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to Behavior change” (Hayes, 1999). E’ oggi una delle psicoterapie con le maggiori prove di efficacia verificate sperimentalmente; è quindi una psicoterapia cosiddetta evidence-based (basata sulle prove riscontrate). L’obiettivo dell’ACT è la modificazione profonda della relazione che abbiamo con i nostri pensieri disfunzionali e le nostre emozioni negative. Alla base dell’ACT vi è il presupposto che la sofferenza psicologica sia connaturata all’esperienza umana. Secondo l’ACT alcuni processi psicologici sono, per loro stessa natura, potenzialmente distruttivi e portatori di sofferenza. L’ACT postula, inoltre, che la radice di questa sofferenza sia il linguaggio. Questo assunto si fonda su una più ampia teoria di base del linguaggio e della cognizione umana, la Relational Frame Theory (RFT; Hayes et al. 2001), alla quale l’ACT si appoggia quale substrato teorico e sperimentale. Secondo la RFT, tutte le attività cognitive umane sono qualitativamente linguistiche. Per processi linguistici non si intendono, infatti, soltanto il parlare o l’ascoltare o lo scrivere, ma anche il pensare, l’immaginare, il visualizzare il futuro, il pianificare una o più azioni. Secondo questa concezione tutto ciò che è mentale è linguistico. I pensieri, le immagini, le anticipazioni, i giudizi, le valutazioni costituiscono una narrazione soggettiva senza fine, un dialogo interiore che le persone hanno incessantemente con sé stesse. Quando questo dialogo interno è connotato negativamente o è troppo rigido determina problematiche di tipo psicologico. Ad esempio, il linguaggio può diventare fonte di sofferenza psichica quando “etichetta” rigidamente sé e gli altri, quando si associa a esperienze passate e fa rivivere ricordi dolorosi, quando ci spaventa prefigurandoci un futuro disastroso. Secondo l’ACT le persone sono influenzate profondamente da questo dialogo interno e non sono del tutto consapevoli di tale condizionamento, in altre parole sono identificate cognitivamente con i propri pensieri. Promuovere la consapevolezza di questa fusione tra sé e il linguaggio rappresenta, quindi, il primo passo per aumentare la propria flessibilità psicologica. Il processo con cui l’ACT promuove questa consapevolezza prende il nome appunto di “defusione cognitiva”. Attraverso la defusione cognitiva le persone apprendono a fare un passo indietro e a osservare la propria narrazione per quello che è, ovvero un flusso di parole, suoni e immagini continuamente mutevoli che non rappresentano pertanto alcuna realtà oggettiva, non modificabile e statica. Le tecniche per promuovere la defusione cognitiva sono moltissime: osservare i pensieri con distacco, immaginare le parole scritte su uno schermo davanti a sé, ripeterle più volte, declamarle ad alta voce fino a che non diventano un suono senza significato o cantarle come una filastrocca. È importante notare come in nessun caso i pensieri espressi in terapia vengano messi in discussione o confutati, contrariamente alla terapia cognitivo-comportamentale standard, che necessita di un simile processo. Sarà compito del terapeuta scegliere l’approccio più indicato per il paziente.

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La dottoressa Filastro riceve :

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